Owen Gingerich, professore di storia
dell’astronomia all’Università di
Harvard, ha investito qualche decennio della sua vita e percorso
più di centomila chilometri per dare la caccia a tutte le copie del “De
revolutionibus” di Copernico sopravvissute ai quasi cinque secoli trascorsi da
quando, nel 1543, il tipografo di Norimberga Johannes Petreius pubblicò questo
libro fondamentale per la scienza moderna.
Giordano Bruno fu proprietario di una di queste
copie, non della prima edizione ma della seconda, quella del 1566, e
naturalmente il pervicace Gingerich l’ha rintracciata. Si trova a Roma alla
Biblioteca Casanatense, che prende il nome dal cardinal Casanate, il capo del
Tribunale dell’Inquisizione che nell’anno 1600 condannò Giordano Bruno al
rogo.
Un rogo che
arde da oltre 410 anni, quello di Campo dei Fiori in Roma dove nella fredda
mattinata del 17 Febbraio 1600 fu arso vivo Giordano Bruno. Una fiamma che da
allora continua a commuovere ma anche a riscaldare i cuori e le menti di
generazioni di uomini che, sull’esempio di Giordano Bruno, si battono perché le
ceneri dell’oscurantismo dogmatico non soffochino la libertà di pensiero e di
ricerca.
Le ricerche di Gingerich
A sentire Gingerich, che l’ha avuta tra le mani,
la copia del “De revolutionibus” appartenuta a Bruno non reca “nessuna
traccia del fatto che (egli) avesse realmente letto il libro” benché su di
essa compaia una sua vistosa firma, con tanto di grazie e fronzoli. Conclude
sbrigativamente Gingerich, “Bruno era stato accusato di eresia per tutta una
serie di idee eterodosse, tra cui la pluralità dei mondi, ma per quanto riguarda
le teorie di Copernico sembrava quanto meno male informato (...) In ogni caso il
suo copernicanesimo non fu una delle cause principali della sua
condanna”.
Ci offre l’opportunità di verificare le idee più
o meno copernicane – e pre-galileiane – di Giordano Bruno la fresca
pubblicazione di una delle sue opere più interessanti, “La cena delle Ceneri”,
curata e annotata da Gianmario Ricchezza, o meglio, come lui dice, “restaurata
in versione moderna” (Edizioni Excelsior 1881,
Milano, 250 pagine, 14,50 euro).
Ricordando la tesi del filosofo Luigi Pareyson,
secondo il quale, mentre Galileo da scienziato poté abiurare tranquillamente le
idee copernicane perché le concezioni scientifiche non sono “personali” ma
appartengono alla comunità degli scienziati, Giordano Bruno, in quanto frate
domenicano e filosofo portatore di verità “personali” (nel senso
esistenzialistico pareysoniano) non poteva far altro che testimoniarle fino alla
morte sul rogo. Se ciò è vero, come credo sia vero, è bene aver sempre presente
che con il libero pensatore Giordano Bruno siamo di fronte a una filosofia, non
a un sistema scientifico. O meglio, siamo di fronte un inestricabile intreccio
delle due cose, con prevalenza della visione filosofica.
Ciò premesso, due parole su “La cena delle
Ceneri”, un’opera, osserva Gianmario Ricchezza, dirompente fin dal titolo,
considerato che, secondo la liturgia cattolica, il Mercoledì delle Ceneri “dà
inizio al periodo di lutto della Quaresima” e quello che invece ci viene
raccontato è un banchetto tutt’altro che quaresimale.
A ciò si aggiunge il fatto che “La cena delle
Ceneri” è costruita in forma di dialogo platonico, intrisa di umorismo e ironia
nonché di idee di concezioni eterodosse. Opera, insomma, quanto mai “filosofica”
e più precisamente epistemologica se, Gianmario Ricchezza giunge a definirla
“uno studio sulle possibilità stesse della conoscenza”.
Nella foto: Owen Gingerich, professore di storia
dell’astronomia all’Università di Harvard.
Il copernicanesimo di Giordano
Bruno
Quanto al copernicanesimo di Giordano Bruno, le
impressioni di Gianmario Ricchezza sono molto diverse da quelle di Gingerich:
“L’entusiasmo che Bruno mostra verso Copernico e il suo De revolutionibus
orbium coelestium non è solo quello di una persona avveduta nei confronti di una
nuova teoria: il filosofo coglie appieno le enormi implicazioni create dal
rovesciamento radicale di una visione dell’universo dalla quale dipendeva e
traeva sostegno anche la visione dell’uomo. Spostare il centro
dell’osservazione. Sostituire la centralità del Sole a quella della terra, non
significava solo riconoscere un dato di fatto o ribaltare un punto di vista, ma
voleva dire togliere il pilastro portante della concezione della centralità
dell’uomo nell’universo, sminuirne l’importanza sino a farlo diventare una
creatura come tutte le altre”.
Dei cinque dialoghi che costituiscono “La cena
delle Ceneri” quello che qui ci interessa direttamente è il quarto dove,
anticipa Bruno, è “mostrato di quante lodi sia degno Copernico”, ma è importante
anche il quinto, dove il moto di rotazione della Terra manda in frantumi le
tolemaiche sfere di cristallo che dovrebbero recare incastonati pianeti e stelle
fisse. Tutta la cosmologia si chiarisce e semplifica, argomenta Teofilo, uno
degli interlocutori del dialogo, se si riconosce che “questa apparenza del moto
dei mondi deriva dal giro della terra”. Quanto alle stelle, si precisa che “non
devono essere chiamate fisse per il fatto che veramente serbano la medesima
equidistanza da noi e tra loro, ma perché il loro moto non è avvertibile da
noi”. Straordinaria e anticipatrice intuizione scientifica.
Dell’armamentario tolemaico viene liquidato anche
l’etere, sulla scia dell’atomismo di Democrito che pone il vuoto tra gli oggetti
infinitesimi. I “corpi nella eterea regione” (...) compiono le loro
orbite come la Terra la sua, e perciò anticamente si chiamavano ethera, cioè
corridori, corrieri, ambasciatori, annunciatori della magnificenza dell’unico
altissimo (...) il qual nome ethera è stato tolto a questi dalla cieca
ignoranza e attribuito a certe quinte essenze, nelle quali siano inchiodate
queste lucciole e lanterne come tanti chiodi”.
Troviamo poco dopo anche un aurorale principio
d’inerzia dove si afferma che tutti i corpi “si muovono senza
contatto sensibile di altro impellente o attraente”, e poche righe più
sotto, l’idea errata, ma poi sostenuta con forza da Galileo, che la Luna sia
estranea alle maree: per Bruno è “solenne idiozia e cosa impossibile da
persuadere una coscienza razionale che la luna muova le acque del mare”,
mentre profondamente antigalileiano e antimoderno è, nella pagina seguente
asserire l’estraneità della matematica al mondo dei fenomeni naturali:
“altro è giocare con le geometria, altro è verificare con la natura . Non
sono le linee e gli angoli che fanno scaldare più o meno il fuoco, ma le
situazioni vicine e distanti, le pause lunghe e brevi”.
Infine, una nota a margine. Gianmario Ricchezza,
“restauratore” della “Cena delle Ceneri”, è stato collaboratore di Anacleto
Verrecchia, che di Giordano Bruno scrisse una memorabile biografia. In questa
edizione, oltre all’utile lavoro di Ricchezza, riconosciamo anche una eredità
dello scrittore-filosofo-germanista-polemista scomparso il 4 febbraio scorso a
82 anni, rimpianto da tutte le persone intelligenti e anticonformiste che
l’avevano conosciuto.
Articolo scritto da Pietro Bianucci
Fonte: lastampa.it Fonte
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