Gigante al vapore
È un “giove caldo” in orbita attorno a Tau Boötis, a 51 anni luce da noi. E nella sua atmosfera c’è vapor d’acqua. La novità sta nel metodo che ha portato alla scoperta: un’estensione della tecnica della velocità radiale, la stessa in uso al Telescopio Nazionale Galileo.
A volte conta quel che si scopre, altre conta assai di più come lo si scopre. Questa del team guidato da Alexandra Lockwood, dottoranda al Caltech, è una scoperta del secondo tipo. Di pianeti extrasolari con l’atmosfera satura di vapor d’acqua, infatti, già se ne conoscevano. Ma nel caso del gigante gassoso Tau Boötis b, per rilevare le molecole d’acqua s’è fatto ricorso a una tecnica nuova: l’estensione della spettroscopia Doppler – la misura della variazione periodica della velocità radiale delle stelle dovuta a uno o più corpi che orbitano loro attorno – all’analisi spettroscopica dell’emissione in infrarosso del pianeta stesso.
Fino a oggi la composizione dell’atmosfera degli esopianeti si poteva studiare essenzialmente in due modi: analizzandola in controluce durante un transito, come fa per esempio il telescopio spaziale Hubble,oppure cercando di immortalarli direttamente – operazione, questa, ancora assai ardita, possibile solo nel caso di pianeti su orbite molto lontane dalla stella madre. Due metodi che possono però applicarsi a una porzione assai ridotta di pianeti extrasolari. È proprio per ampliare l’insieme di mondi analizzabili che Alexandra Lockwood e il suo supervisore di dottorato, il cosmochimico Geoffrey Blake, hanno deciso di affidarsi a questa nuova tecnica (in realtà già usata in precedenza, e proprio su Tau Boötis b, per rilevare il monossido di carbonio).
Lo strumento utilizzato è il Near Infrared Echelle Spectrograph (NIRSPEC) del Keck, alle Hawaii. Ma all’analisi della velocità radiale (metodo per scoprire esopianeti adottato anche dai due strumenti gemelli HARPS e HARPS-N, il secondo dei quali ospitato al Telescopio Nazionale Galileo dell’INAF) il team del Caltech ha affiancato, appunto, lo studio spettrale dell’emissione dal pianeta stesso.
Due piccioni con una fava, insomma. Certo, perché il sistema funzioni i due “piccioni” – la stella e il pianeta – devono essere parecchio grossi. «La tecnica è limitata dalla capacità di raccolta della luce del telescopio e dalle lunghezze d’onda alle quali è sensibile. E persino con un’area di raccolta incredibilmente ampia come quella dello specchio del Keck, posto sulla cima alta e secca del Mauna Kea, riusciamo per ora a studiare soltanto grandi pianeti caldi in orbita attorno a stelle luminose», spiega Lockwood. La speranza è che in futuro, con i telescopi giganti di prossima generazione e con spettrografi a infrarossi migliori, il campo d’applicazione di questa tecnica possa estendersi a pianeti di massa minore, con stelle madri meno luminose, e ad altri tipi di molecole.
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