L'idea centrale, non nuova ma finora sempre teorica, è proprio quella che i milioni di fedeli delle serie e dei filmStar Trek conoscono da quando il primo episodio andò in onda nel settembre del 1966: la "warp speed", la traiettoria che viaggia sui "warp", le curve e le pieghe dello spazio per tagliare le distanza e renderle più a misura di una vita umana che non può essere contata in anni luce.
Il vero Captain Kirk di Star Trek tesse ogni giorno il sogno di andare laddove l’umanità non si è mai spinta, oltre le stelle.
Si chiama Harold White, fisico e specialista di sistemi di propulsione spaziale futuri che ancora soltanto lui immagina e che parla con la timidezza pensosa dello scienziato vero, davanti alla sua astronave “Enterprise” che somiglia a una ruotina per supercriceti lanciati oltre la velocità della luce.
“E’ possibile”, dice, “è perfettamente possibile violare il limite di velocita dell’Universo”. Ma quando? “Fra quanche centinaio di anni”.
Eppure è proprio nel suo laboratorio, modesto, spoglio e piccolo come un’aula d’asilo, lavorando con gli spiccioli che scivolano dalle tasche del bilancio Nasa come monetine tra i cuscini dei divani, che l’intuizione romanzesca del creatore di Star Trek, Gene Roddenberry, il superamento della velocità della luce, è lavoro quotidiano.
L’idea centrale, non nuova ma finora sempre teorica, è proprio quella che i milioni di fedeli delle serie e dei filmStar Trek conoscono da quando il primo episodio andò in onda nel settembre del 1966: la “warp speed”, la traiettoria che viaggia sui “warp”, le curve e le pieghe dello spazio per tagliare le distanza e renderle più a misura di una vita umana che non può essere contata in anni luce.
Il lavoro del dottor White, che la Nasa ha finalmente riconosciuto e finanziato con quella miseria di 50 mila dollari, muove dal “Vettore di Alcubierre” l’idea di un fisico teorico messicano, Miguel Alcubierre, elaborata nel 1994. Visto che il limite di velocità dei fotoni, cioè della luce, postulato dalla relatività speciale di Einstein non è oltrepassabile, Alcubierre ipotizzò che il solo modo per superarlo fosse non di accelerare il moto, ma di ridurre lo spazio.
Se il suo “motore” potesse essere costruito, lo spaziotempo davanti all’astronave si restringerebbe, espandendosi nella sua scia. Dunque la “Enterprise” dei futuro Captain Kirk o Picard non andrebbe più veloce, rispettando il limite di velocità imposto dal codice Einstein, ma percorrerebbe più distanza.
Ma nessuno sa come costruire un veicolo capace di comprimere lo spazio, ridurre il tempo e navigare tra le rughe dell’Universo come l’ago di una sarta fra le pieghe di un tessuto.
Problemi incomprensibili a noi umani, come “energia a densità negativa” generata da materia esotica quali le “particelle con massa negativa”, o i “barioni”, o il “plasma quarkgluon “, magari prodotti dalla “femtotechonologia” che addirittura violerebbero le leggi della fisica conosciute avevano sempre confinato i tentativi di applicazione pratica del “Moto di Alcubierre ” sulle lavagne delle aule universitarie. Entra in scena Harlod White.
Armato di un interferometro, un’apparecchiatura circolare che serve a misurare le deviazioni nel percorso dei fotoni, dunque della luce [il principio cruciale per il viaggio a velocità “warp”] White cerca di riprodurre l’evento che segnò la nascita dell’Universo.
“Sappiamo che dopo il Big Bang, particelle furono allontanate l’una dall’altra a velocità immense. Se la natura potè farlo, perché noi non potremmo riprodurre il fenomeno?” spiega a un intervistatore del New York Times.
Il suo laboratorio spoglio, ma specialmente isolato, costruito con quegli avari stanziamento resi necessari dalla estrema sensibilità dell’interferometro che registrava gli sternuti dei vicini di stanza, esibisce modelli e simulazioni di come potrebbe essere la astronave a massa negativa, quella che dovrebbe creare attorno a sé una “bolla” di energia in grado di restringere lo spazio-tempo davanti ed espanderlo dietro, per non turbare le leggi universali.
“Non c’è assolutamente nulla di impossibile, sul piano teorico” insiste, lui che non è un autore di sci-fi, ma un fisico che per 20 anni ha lavorato a sistemi di propulsione utilizzati per i lanci della Nasa.
“Sembra impossibile perché non abbiamo ancora la tecnologia per fabbricarlo, come Leonardo che aveva chiarissimo il principio del volo umano, ma non disponeva di mezzi necessari per renderlo fattibile. Un giorno potremmo avere gli strumenti per permettere a E. T. di andare e tornare”.
L’ipotesi di Alcubierre, piegare la natura stessa dell’Universo alla microscopia misura del tempo umano, potrebbe essere praticabile, ma la forza di gravità irresistibile, lo spazio che non si piega non sta oltre la Galassia, ma ad appena due ore di volo dal suo Space Center a Houston.
Sta a Washington, dentro le aule del Congresso che nella Nasa ha da tempo perso la fede e ogni anno, puntualmente, sforbicia i fondi di ricerca citando la necessità di non aumentare le tasse.
Il budget per il 2014, 17 miliardi, è inferiore a quello del 2007, l’anno prima del grande crack finanziario e la metà dei 35 miliardi (in dollari attuali) riversati sulla “signora della stelle ” per tutti gli anni ’60, quelli della corsa alla Luna alimentata dal carburante della Guerra Fredda.
Certamente non è ancora nato, e non nascerà per secoli il comandante che guiderà la Enterprise fra le onde dello spazio interstellare, e tra la ruota dei criceti fotonici di White e la realtà c’è la distanza che separe gli elicotteri di Da Vinci e gli Apache della Us Army.
Ma già sapere che si può, si potrebbe, è lecito immaginare, rende forte una domanda: se altre creature intelligenti nell’Universo avessero realizzato l’ipotesi di Alcubierre (che resta valida ovunque essendo le leggi della fisica identiche per tutti i figli delle stesse) qualcuno potrebbe avere attraversato lo spazio fino a noi.
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