25 Gennaio 1959. È una mattina gelida, a Ivdel, nell’Oblast di Sverdlovsk. Ma il freddo non spaventa la comitiva appena arrivata in treno per una spedizione in montagna. Meta: Otorten, una vetta degli Urali. Un percorso- vista la stagione e le temperature sotto zero- decisamente proibitivo. Ma quei giovani escursionisti, esperti e ben attrezzati, sono sicuri di arrivare a destinazione entro la metà del mese seguente. Non possono immaginare quale terribile sorte li stia aspettando. Tragica e ancora oggimisteriosa.
IGOR DYATLOV, UNA DELLE GIOVANI VITTIME DEL MISTERIOSO INCIDENTE
Il più anziano del gruppo è Semyon Zolotarev, 38 anni, appassionato scalatore e guida. Tutti gli altri sono studenti e neolaureati del Politecnico degli Urali, poco più che ventenni. A guidarli è Igor Dyatlov. Il 27 gennaio, parte la loro marcia. Il giorno seguente, uno degli amici si ammala e rinuncia. Rimangono in 9- sette uomini e due donne. Il 1 febbraio si muovono in direzione del Kholat Syakhl- la “montagna morta”, in dialetto locale. Ma sbagliano percorso, traditi dal maltempo. Si accampano alle pendici del monte, in quel passo che prenderà poi il nome del giovane Igor, in memoria sua e dei suoi compagni.
Passano i giorni, uno dopo l’altro, senza alcuna notizia dei ragazzi. Arriva anche il 12 febbraio- data nella quale Dyatlov aveva promesso di inviare un telegramma a missione compiuta. I parenti si preoccupano, insistono che vengano mandati dei soccorsi. La spedizione formata da volontari e altri studenti parte il 20 febbraio; a loro si uniscono poi i soldati con gli elicotteri.
Il 26 febbraio, i soccorritori trovano l’accampamento vuoto: la tenda- schiacciata dalla neve- è piena di abiti e suppellettili e presenta dei tagli prodotti dall’interno. Tutto fa pensare che i ragazzi siano usciti precipitosamente da lì, dimenticandosi le scarpe, indossando soltanto calze o addirittura a piedi nudi.
A 500 metri, sotto un albero, trovano i primi due corpi, vicino ad un falò ormai spento. Sono quelli di Yuri Krivonischenko e di Yuri Doroschenko. Ci sono dei rami spezzati: forse uno dei due si è arrampicato per cercare il campo-base. Tra quel punto e la tenda, vengono scoperti altri tre cadaveri, a distanza di qualche decina di metri l’uno dall’altro, come se avessero tentato- in fila indiana- di ritrovare l’accampamento. Si tratta di Igor Dyatlov, Zina Kolmogorova e Rustem Slobodin. Ma gli altri quattro escursionisti mancano all’appello.
LA TENDA DEGLI ESCURSIONISTI
Li recupereranno solo a maggio, durante il disgelo, sepolti sotto metri di neve, in un dirupo. Lyudmila Dubinina, Alexander Kolevatov, Nicolai Thibeaux-Brignoles e Semyon Zolotarev sono coperti da vari strati di indumenti: probabilmente hanno tolto gli abiti ai compagni morti per scaldarsi, ma non è bastato a salvare loro la vita. Su quei corpi viene effettuata l’autopsia per chiarire le cause della morte. I primi cinque sono deceduti per ipotermia. Ma i cadaveri trovati in primavera rimescolano le carte: tre presentanotraumi cranici e toracici molto gravi, simili a quelli provocati da un incidente stradale.
Eppure non ci sono segni esterni, nè lesioni, nè ferite superficiali. Tranne che su Lyudmila: le mancano la lingua, gli occhi e parte della mascella. Per i medici, probabile effetto della decomposizione: è rimasta a faccia in giù in un rivolo di acqua corrente. Manon riescono a capire cosa li abbia uccisi. Tanto che sul referto- rimasto a lungo segreto nell’URSS comunista- viene indicata una generica “irresistibile forza naturale”.
L’inchiesta viene archiviata e dimenticata. Non se parlerà più fino agli anni ’90, quando il caso torna alla ribalta, insieme a parte dei documenti ufficiali dell’epoca. Giornalisti e scrittori se ne appassionano e le notizie iniziano a circolare. E con esse, anche gli interrogativi.
Le perizie mediche hanno infatti accertato che sei giovani sono morti per il freddo e tre per le gravi fratture, ma tutti tra le 6 e le 8 ore dopo l’ultimo pasto. Sugli abiti di alcune vittime, poi, sono stati riscontrati alti livelli di radioattività. Altre testimonianze aumentano il mistero. Yuri Kuntsevich- 12enne nel 1959- assistette ai funerali di 5 degli sciatori morti: ricorda che avevano la pelle scurissima, come tinta di marrone.
E altri escursionisti, che in quegli stessi giorni stavano attraversando gli Urali 50 chilometri a sud dal luogo della strage, raccontano di aver visto, nella notte dell’incidente, strane sfere arancioni brillare nel cielo in direzione del Kholat Syakhl. Luci avvistate in seguito da decine di altre persone.
COSA HA UCCISO I GIOVANI SCIATORI ?
Chi o cosa ha ucciso il gruppo di Dyatlov? Un agguato da parte degli indigeni Mansi? Improbabile: non c’erano tracce di altre orme umane nè di un combattimento corpo a corpo. Li ha sorpresi una slavina ed in preda al terrore sono fuggiti seminudi, a -30 gradi, morendo nel giro di pochi minuti? Questa ipotesi spiegherebbe la mancanza di scarpe e altri indumenti, ma non giustifica l’assenza di ferite esterne sui corpipolitraumatizzati.
Ecco perchè vengono avanzate altre teorie. La loro morte sarebbe stata il danno collaterale di un esperimento militare segreto, oppure sarebbero stati eliminati proprio perchè avevano visto quello che non dovevano vedere. L’accampamento si trovava sulla traiettoria dei missili intercontinentali R-7, lanciati dal cosmodromo di Baikonur: erano forse quelle le sfere luminose?
Ma è stata persino ipotizzata la pista aliena. Gli scalatori sarebbero rimasti vittime di entità extraterrestri dotate di armi a noi sconosciute. Ad affermarlo in un articolo, un ex poliziotto, Lev Ivanov, a capo dell’inchiesta condotta nel 1959. Oltre 30 anni dopo, rivelò di aver ricevuto pressioni da parte dei suoi superiori per interrompere le indagini: gli venne chiesto di mantenere il più stretto riserbo in particolare sulle luci arancioni apparse in cielo. Sicuramente Ufo, secondo Ivanov.
A distanza di 55 anni, l’incidente del Passo Dyatlov è ancora un enigma. Ma ora un regista americano, Donnie Eichar, è convinto di aver capito cosa abbia stroncato quelle giovani vite- e la sua è una spiegazione scientifica, elaborata in collaborazione con ricercatori della National Oceanic and Atmospheric Administration. Dopo quattro anni di ricerche per la stesura del suo libro su questa drammatica vicenda, è arrivato alla conclusione che sia stata davvero una “inarrestabile forza naturale”.
LA LAPIDE CHE RICORDA LE GIOVANI VITTIME
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