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L'AMORE DI DIO PER GLI ESSERI UMANI E TENERO COME IL BACIO CHE MARIA DIEDE A GESU APPENA NACQUE Redazione di Loris Paglia

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sabato 22 febbraio 2014

Elettrolisi nella piramide di Cheope



Cosa c’entrano gli antichi Egizi con l’idrogeno e l’elettricità?
Utilizzavano fuel cells per produrre elettricità?
Bruciavano ossigeno e idrogeno per sciogliere metalli?
“…Io credo che l’acqua sarà un giorno usata come combustibile poichè l’idrogeno e l’ossigeno che la costitiuiscono, usati separatamente o insieme, forniranno un inesauribile sorgente di calore e luce…….”
Jules Verne: L’Isola Misteriosa
Credo che l’uomo, in passato, abbia già sviluppato la tecnologia necessaria a separare i due gas e la piramide di Cheope non è che un esempio di impianto di biotecnologia.
Sono perfettamente consapevole che un’affermazione del genere rischia seriamente di compromettere la reputazione di qualsiasi persona razionale, ma sono disposto a correre questo rischio, anzi gradirei la collaborazione di chiunque voglia mettere in discussione le tesi che sto per esporre in modo da riuscire a togliermi questo sassolino che continua a torturarmi. Premetto che sono un Agronomo pentito dell’agricoltura tradizionale (si intende l’agricoltura degli ultimi 50 anni) che ha cercato di approfondire alcuni aspetti contradditori di una pratica agricola ormai al collasso. Durante le mie ricerche sul web mi sono imbattuto nella miriade di pagine dedicate alla piramide di Cheope (forse la prima meraviglia del mondo) e sono rimasto letteralmente sconvolto dalla sua mole e dalle varie teorie sulla costruzione e funzione.
“La piramide di Cheope è composta da 2.300.000 pietre che pesano in media 2,5 tonnellate l’una. Se è stata costruita da 15.000 schiavi nell’arco di venti anni, questo vuol dire che i blocchi sono stati tagliati al ritmo di tre al minuto…!” Sono stati usati dei materiali durissimi da lavorare come il granito e la diorite in modo talmente perfetto da ipotizzare l’uso di strumenti e tecniche eccezionali. Anche nell’oggetistica ritrovata ci sono gioielli in oro e pietre (vasi di diorite) lavorati con tecniche sconosciute. Ingegneri e artigiani si sono impegnati da tempo per spiegare le diverse tecniche costruttive senza riuscire a fornirci prove convincenti, ma forse il punto debole è proprio nella valutazione del tipo di energia impiegata, cioè l’energia muscolare di schiavi e animali. Allora di quale fonte energetica disponevano gli antichi egizi ? Gli egizi praticavano il culto del sole come fonte di energia e conoscevano sofisticate tecniche di coltivazione in grado di soddisfare il fabbisogno di energia alimentare.
Secondo quanto riporta Erodoto la valle del nilo veniva sommersa dalle acqua del fiume dal mese di giugno fino al mese di settembre lasciando uno strato di limo dove gli egizi seminavano cereali a ciclo invernale raccolti prima della successiva inondazione. Dal punto di vista agronomico noi sappiamo che i cereali producono una grande quantità di biomassa non utilizzata (paglia) molto ricca di cellulosa e possiamo ipotizzare una grande frequentazione di animali (uccelli, maiali, serpenti, etc.) dopo la raccolta della coltura. Erodoto parla addirittura dell’allevamento di oche e maiali sui residui lasciati dalle coltivazioni. Adesso immaginiamo tutta quella biomassa composta da paglia ed escrementi sommersa dall’acqua del Nilo carica di limo e la temperatura raggiunta nei mesi estivi a quella latitudine.
E’ facile supporre un processo di fermentazione anaerobica in cui una biomassa ricca di carbonio e arricchita da sostanze azotate delle deiezioni produce biogas o “aria infiammabile di palude”. Alessandro Volta nell’autunno del 1776 scoprì la proprietà infiammabile di questo gas studiando in un’ansa di acqua stagnante del fiume nel cremonese, in quell’epoca il fenomeno era spiegato, al pari dei fuochi fatui, con poca “scienza” e molta superstizione, addirittura c’era anche chi lo riteneva il “respiro del diavolo”. E’ possibile secondo voi che gli egiziani che conoscevano alcune biotecnologie come la fermentazione del pane, della birra e del vino fossero così ciechi da non vedere cosa stava avvenendo sotto le acque del fiume sacro? Innanzi tutto dobbiamo ricordare che lo sfruttamento di una fonte energetica permette lo sviluppo di tecnologie che ottimizzano la sua utilizzazione e mettono a disposizione gli strumenti e l’energia per esplorare altri sistemi energetici. Le piramidi egizie pur rimanendo fedeli alla forma, con alcune variazione di inclinazione, hanno avuto una evoluzione rispetto ai materiali di costruzione passando da mattoni di argilla a massi di calcaree di 20 quintali dimostrando che una maggiore disponibilità energetica e tecnologica veniva investita per ottimizzare il processo produttivo. E se il complesso di Giza non fosse altro che un impianto industriale di biotecnologie ?

Il complesso di Giza:
un grande impianto biotecnologico ?

Noi oggi sappiamo che il biogas è una miscela di metano (65%), anidride carbonica (30%), vapore acqueo (1.9%), azoto (1,8%), idrogeno solforato (0,6), ossigeno (0.5), mercaptani (0,2%) con valori dei componenti variabili a seconda del materiale fermentescibile di partenza e le condizioni in cui avviene la fermentazione. Le principali tecnologie per la sua utilizzazione sono indirizzate alla purificazione e lo stoccaggio: la prima ci permette di avere il gas metano puro con piu alto potere calorifico (8.000 kcal/m3), la seconda l’immagazzinamento in volumi contenuti. Se le piramidi non erano monumenti funerari allora potevano essere dei biodigestori dove opportune temperature e pressioni permettevano un conveniente stoccaggio del biogas. Alcuni aspetti convalidano questa tesi:
1- La forma piramidale a base quadrata ha un alto rapporto tra la superficie esterna e il volume in modo da permettere dispersione di calore della massa.
2- Le pareti esterne erano ricoperte da calcare bianchissimo tale da riflettere i raggi solari.
3- Le pareti inclinate in modo perfetto potevano permettere un sistema di raffreddamento a film di acqua che sfruttando il calore necessario alla sua evaporazione abbassava la temperatura della massa (sistema usato in agricoltura in serre).
4- Le pareti degli ambienti interni sono di materiale diverso e in particolare granito rosso, diorite perfettamente combacianti e a tenuta stagna, quasi fatte a posta per contenere gas.
5- La piramide viene orientata con il lato dove è l’ingresso principale a nord e questa parete è anche quella che rimane sempre in ombra durante il giorno creando un gradiente termico.
6- Nell’anno 820 d.C. il Califfo Ma’mun fu il primo ad entrare nella camera del re e trova solamente un sarcofago in granito vuoto, ma racconta di aver trovato del materiale infiammabile tale da rendere l’aria interna irrespirabile. Si trattava di polvere di zolfo.
7- Ultima e forse banale osservazione è quella simbolica: noi sappiamo che la molecola di metano è composta da cinque atomi (CH4) come i cinque angoli della piramide quattro uguali alla base e uno diverso al vertice, ma la molecola di metano ha una forma spaziale piramidale con base triangolare e la molecola di carbonio al centro.
Il biodigestore anaerobico trasforma la biomassa fermentescibile in biogas e sottoprodotti che devono essere periodicamente allontanati dal processo in quanto tossici per i microorganismi usati. Si tratta di composti molto ricchi di sostanze azotate e in base alla loro consistenza si dividono in liquami (parte liquida) e fanghi (parte solida). Di solito oggi vengono utilizzati per la concimazione delle colture agrarie previa il controllo di alcuni elementi inquinanti come metalli pesanti o flora microbica pericolosa in quanto la maggior parte dei biodigestori è stata costruita per smaltire reflui zootecnici e urbani. Durante la mia ricerca mi sono per caso imbattuto in questo dipinto egizio nel papiro di Heruben:
Scusate la mia ingenua interpretazione:
1 – Le due figure con la testa di serpente e felino a sinistra portano i liquami rappresentati dal serpente nero (il movimento di un liquido su una superficie piana) ad una figura femminile che rappresenta la fertilità.
2 – A destra in basso i vasi contenenti del materiale nero potrebbero rappresentare i fanghi interrati precedentemente la semina di grano rappresentato da un fascio di spighe.
3 – La donna irriga con i liquami la coltura già nata (concimazione di copertura) rappresentata dal verde che ricopre il fascio di spighe.
4 – Le immagini superiori rappresentano la trasformazione dell’energia contenuta nei composti azotati dei reflui in frutti.
5 – Il vaso contenente fiori di loto potrebbe significare il pretrattamento dei liquami per renderli utilizzabili come fertiirigazione .
Le coincidenze aumentano con altre due considerazioni agronomiche:
1 – I cereali sono le specie vegetali coltivate che più utilizzano concimazioni azotate per la loro crescita e produzione.
2 – Alcune specie vegetali, tra cui il loto, vengono oggi utilizzate per migliorare la qualità di acque contenenti composti azotati ridotti (ammoniaca, etc.) che risultano tossiche se usate direttamente sulle colture.
Negli impianti moderni il trattamento delle acque azotate avviene in vasche di raccolta dotate di sistemi di arieggiamento della massa in modo da accelerare il processo di ossidazione dei composti azotati, allora dove venivano stoccate queste acque nel complesso di Giza ?
Si avete visto bene è proprio nella vasca che circonda la sfinge che gli antichi egizi stoccavano le acque azotate provenienti dalla fermentazione anaerobica per la produzione di biogas in attesa di un loro possibile riutilizzo e rimettere nel ciclo biologico l’energia contenuta nei suoi composti. Anche in questo caso sono due i fatti che ci portano a questa conclusione:
1 – La sfinge si trova ad una altezza inferiore al tempio e è ad esso collegato tramite un condotto che ne permette il deflusso dei liquidi.
2 – L’erosione orizzontale e verticale della roccia calcarea dovuta ai composti azotati di cui sono ricchi i liquami.

Fermentazione anaerobica, biomassa e biogas.

Sappiamo che gli egizi conoscevano il processo della fermentazione anaerobica della biomassa per la produzione di biogas come fonte energetica, ma ciò non è sufficiente a spiegare l’enorme impiego di energia per la costruzione di impianti grandi come le piramidi. Secondo la formuletta della redditività energetica: Re= ((Ep-Eu)/S)/T. Cioè la convenienza di ogni processo produttivo è data dalla differenza dell’energia prodotta (Ep) meno l’energia utilizzata (Eu) in un determinato spazio (S) in un intervallo di tempo (T). Per la costruzione delle piramidi è stata utilizzata una enorme quantità di energia (Eu) che per essere prodotta dalla fermentazione della biomassa (Ep) avrebbe avuto bisogno di moltissimi anni (T). Il limite risiede nella qualità energetica intrinseca del biogas contenente il 60% di metano con una quantità di energia, generata dalla combustione, di circa 802 kJ/mol e dallo spazio (metri cubi) necessari allo stoccaggio. (frase ORIGINALE)”Soprattutto il tempo di costruzione non è compatibile con il modesto contenuto energetico del metano perché se l’energia è la capacita di compiere un lavoro per un determinato tempo ( E = L x T) il lavoro compiuto sarà uguale alla quantità di energia liberata in un intervallo di tempo (L = E / T)”, (frase INTERPRETATA)”Soprattutto l’energia totale che si libera da un volume di metano (quello stoccato nel volume interno della piramide) reiterato N volte in 20-30 anni é sensibilmente minore dell’energia consumata per la costruzione della piramide nel medesimo periodo di tempo”(Aldo Adanti non fornisce un calcolo approssimativo della energia totale prodotta dalla chimica del metano rispetto alla energia stimata per costruire la piramide).
L’enorme lavoro necessario alla costruzione della piramide di cheope nell’intervallo di tempo di 20 -30 anni necessita di una quantità di energia disponibile in tempo brevissimo non giustificabile con l’impiego di biogas e tantomeno con l’energia muscolare di migliaia di operai. Allora se non c’era la convenienza energetica alla costruzione di impianti così monumentali a cosa serviva la produzione di biogas ? Nella piramide di Cheope la stanza più in alto è la cosiddetta “camera del re” costruita con lastre di granito rosso dove si trova un sarcofago dello stesso materiale e proprio qui avviene la concentrazione di energia dalla trasformazione del biogas in un composto molto più ricco energeticamente attraverso una nuova e rivoluzionaria biotecnologia. Il tempio di Dendera copre un’area di circa 40.000 m² ed è interamente circondato da un muro di mattoni a secco. Le più antiche strutture potrebbero risalire al regno di Pepi I (circa 2250 a.C.) mentre sono evidenti i resti di un tempio eretto durante la XVIII dinastia. Tra i molti bassorilievi che decorano il tempio due hanno attirato l’attenzione in modo particolare, essi provengono dalle decorazioni della cripta del tempio. Si tratta di rappresentazioni simboliche del fiore di loto associato con l’immagine del serpente, tradizionalmente legato ai miti egizi della creazione.
Nel 1894 Joseph Norman Lockyer affermò che si trattasse di rappresentazioni di lampade elettriche ad incandescenza simili ai tubi di Crookes e che questo documentasse le conoscenze degli antichi egizi sull’elettricità. L’ingegnere svedese Henry Kjellson, nel suo libro “Forvunen Teknik” (tecnologia scomparsa) fece notare che nei geroglifici quei serpenti sono descritti come “seref”, che significa illuminare, e ritiene che si riferisca a qualche forma di corrente elettrica. Nella scena, all’estrema destra, appare una scatola sulla quale siede un’immagine del Dio egiziano Atum-Ra, che identifica la scatola quale fonte di energia.
Attaccato alla scatola c’è un cavo intrecciato che l’ingegner Alfred D. Bielek identifica come una copia esatta delle illustrazioni odierne che rappresentano un fascio di fili elettrici. I cavi partono dalla scatola e corrono su tutto il pavimento, arrivando alle basi degli oggetti tubolari, ciascuno dei quali poggia su un sostegno chiamato “djed” (lo Zed) che Bielek identificò con un isolatore ad alto voltaggio. Benché nessuna altra scoperta abbia in seguito confermato tale ipotesi le lampade sono spesso inserite nelle liste di reperti archeologici, o presunti tali, di cui non è possibile fornire una spiegazione soddisfacente. Ma il quesito che sorge spontaneo è se usavano l’elettricità per le lampade come riuscivano a produrla?
All’interno del tempio troviamo un altro enigmatico bassorilievo che rappresenta uno strano apparecchio che potrebbe rappresentare un originale modello di pila a combustione (fuel cell).
Dal contenitore a sinistra escono gli ultimi due cordoni collegati alle prime due porte di ingresso all’apparecchio rappresentato da 7 decorazioni a semicerchio (due uguali raffiguranti un fiore con 8 petali). Alla destra del semicerchio i due poli, con alla sommità le porte di uscita e i rispettivi cordoni che tornano al contenitore, sono contenuti in una imbarcazione stilizzata con al centro una sfera con inciso una saetta simbolo dell’elettricità.
Una pila a combustibile (detta anche cella a combustibile dal nome inglese fuel cell) è un dispositivo elettrochimico che permette di ottenere elettricità direttamente da certe sostanze, tipicamente da idrogeno ed ossigeno, senza che avvenga alcun processo di combustione termica.
I cordoni che tornano al contenitore rappresentano la ciclicità del processo, cioè la scissione della molecola di acqua attraverso l’elettrolisi con la formazione del gas di Brown (ossidrogeno).
Questo gas sfrutta gli atomi e non le molecole e la fiamma che ne scaturisce riesce a vaporizzare le sostanze che si pongono davanti ad essa perché interagisce con la sostanza dell’oggetto che sta trattando. Pur sviluppando un calore di 130°C, il gas riesce a vaporizzare il tungsteno che si scioglie a circa 6.000°C, non emette radiazioni nocive e la sua fiamma può essere guardata senza maschere protettive; è inodore e non nuoce se inalato, non esaurisce l’ossigeno vicino alla fiamma perché proprio da questo deriva. Esperti di metallurgia, analizzando alcuni attrezzi egizi, hanno stabilito che in Egitto era in uso un processo di riscaldamento del metallo ad alte temperature che lo portavano alla evaporazione e alla successiva condensazione in polvere; tale procedimento è noto come “metallurgia ceramica” oppure “metallurgia delle polveri”. Ma come veniva prodotta questa miscela di idrogeno e ossigeno in un processo energeticamente vantaggioso (Re= ((Ep-Eu)/S)/T) ? Dal tempio di Dendera dobbiamo tornare alla piramide di Cheope e precisamente nella “ Camera del Re” dove, attraverso una sofisticata biotecnologia, il biogas veniva trasformato in idrogeno e anidride carbonica. Pur non avendo a disposizione il microscopio gli egiziani erano a conoscenza di un gruppo di batteri chiamati Archaebacteria caratterizzati dalla possibilità di adattarsi alle condizioni più estreme di vita. In particolare di trarre l’energia dall’ossidazione del metano e trasformare l’anidride carbonica per la formazione dei propri costituenti biologici. Alcune di queste specie sono stati recentemente isolati nei fondali marini ricchi di biogas prodotto dalla fermentazione anaerobica della sostanza organica. Ma come fanno questi batteri ad ossidare il metano sott’acqua in assenza di ossigeno ? Semplicissimo, come tutti i batteri, ricorrendo ad un particolare enzima capace di scindere la molecola d’acqua in ossigeno da utilizzare per l’ossidazione del metano e l’idrogeno per ridurre l’anidride carbonica in prodotti più complessi.
Molti gruppi di batteri hanno la caratterisitica di produrre idrogeno attraverso l’azione enzimatica che compie la rottura dei legami idrogeno di numerosi composti organici, ma l’originalità di questa specie risiede nella idrolisi della molecola d’acqua e la produzione di una miscela di ossidrogeno. Ma dove gli antichi egizi avevano isolato questo batterio, non certo sotto i fondali marini ? La conoscenza apparteneva ai sacerdoti, la religione si fondeva con la scienza, mentre oggi viviamo una netta separazione tra religione e scienza e ciò forse ci impedisce di comprendere il vero significato dei documenti che ci hanno lasciato alcune civiltà antiche. Il 4 novembre 1922 avvenne, nella Valle dei Re in Egitto, una sorprendente ed eccezionale scoperta che coronava gli sforzi di un egittologo, l’inglese Howard Carter , (Kensington, 1873 -Londra 1939). Si trattava dell’ingresso murato della tomba di un Faraone della XVIII Dinastia, Tutankhamon (morto diciottenne nel suo nono anno di regno, circa 1318 anni prima di Cristo), l’unica tomba di Tebe (l’attuale Luxor) ritrovata intatta con il suo corredo funerario, ad eccezione di limitati danni apportati dall’incursione di alcuni saccheggiatori che, disturbati, non riuscirono a completare il loro lavoro. Alcuni anni fa, un ricercatore di Milano, Giancarlo Negro , visitando il museo del Cairo, avanzò l’ipotesi che lo scarabeo stercorario (Scarabaeus sacer) , simbolo della rinascita solare (che gli Egizi chiamavano Kheper o Kapri) incastonato al centro di un pettorale di Tutankhamon, non fosse di “calcedonio” (come si riteneva), ma fosse stato intagliato in un materiale più raro e prezioso: il “Silica Glass”.
Questo rarissimo e purissimo vetro naturale, composto al 98% di silicio puro, dai colori varianti dal bianco, al verde-giallo, al verde-azzurro, è il prodotto della fusione ad altissime temperature del quarzo contenuto nella sabbia fino all’ebollizione con successivo lento raffreddamento. Lo Scarabeus sacer è probabilmente la specie più nota di stercorario; questo insetto era venerato nell’Antico Egitto, e sue rappresentazioni pittoriche o in altre forme costituiscono un elemento tipico e ben noto dell’arte egizia. Lo scarabeo era infatti collegato a Khepri, il dio del Sole nascente, che si supponeva creasse il Sole ogni giorno in modo analogo a quello con cui lo scarabeo crea la pallottola di sterco.
L’espressione scarabeo stercorario, attribuito allo Scarabeus sacer, si riferisce a diverse specie di scarabei che si nutrono di feci e che raccolgono il loro nutrimento (per conservarlo o per deporvi le uova) facendone caratteristiche pallottole e facendole rotolare sul suolo. Questo genere di comportamento viene esibito da diverse specie delle famiglie Scarabaeidae e Geotrupidae. Una caratteristica di alcune famiglie di Coleotteri è di vivere in simbiosi con specie di batteri e funghi da cui traggono vantaggi dalle modifiche apportate all’ambiente in cui l’insetto compie il suo ciclo vitale. Negli scolitidi (Coleoptera Scolytidae) le femmine scavano in profondità nel legno lunghe gallerie che si ramificano o dilatano a formare vere e proprie camere entro le quali verranno deposte le uova. Le larve non si cibano direttamente del legno, nutrimento assai povero, ma di funghi simbionti introdotti nell’albero ospite dalla madre. All’interno del legno vi sono infatti le ottimali condizioni di tenebra, temperatura e umidità per lo sviluppo dei funghi che tappezzano le pareti delle gallerie degli scolitidi. In questo modo, nutrendosi del micelio fungino presente, oltre a completare la maturazione delle gonadi, s’imbrattano delle spore che poi trasporteranno in un nuovo albero ospite. Lo scarabeo stercoraro depone le uova all’interno di palle di sterco fresco prodotto da numerosi erbivori che vengono interrate accuratamente come nutrimento alle future larve, ma il contatto con il terreno li espone alla contaminazione di funghi e batteri indesiderati compromettendo la vita delle larve. Allora lo stercoraro costruisce accuratamente la palla di sterco irrorandola continuamente con un particolare enzima prodotto da batteri simbionti presenti nelle ghiandole anali. La caratteristica di questo enzima è di disidratare fortemente lo sterco in modo da renderlo inattaccabile da contaminazioni microbiche e garantire la sua stabilità nel terreno fino allo sviluppo della larva. Avete proprio capito bene si tratta di un enzima capace di scindere l’acqua in idrogeno e ossigeno, gas volatili che si disperdono nell’aria. La propagazione del batterio avviene attraverso la produzione di spore e contaminazione della palla di sterco nutrimento per le giovani larve garantendo la colonizzazione dell’apparato digerente del nuovo insetto. Per questa sua particolare caratteristica lo scarabeo era usato dagli antichi egizi nel processo di mummificazione che richiede una profonda e drastica disidratazione dei tessuti per permettere la loro conservazione nei secoli. La piramide di Cheope fu costruita per ricreare le condizioni fisiche (temperatura e pressione) necessarie allo sviluppo di questo particolare microrganismo nutrito con il biogas della fermentazione anaerobica della biomassa per la produzione di idrogeno utilizzato per generare corrente elettrica e calore in un sistema biologicamente ed energeticamente compatibile con lo sviluppo di una splendida civiltà, senza la necessità di dover occupare e sfruttare nuovi territori e popolazioni.

Celle a combustibile microbiche:
Fuel cells ecocompatibili.

Armati delle conoscenze scientifiche oggi acquisite, proviamo a vedere come funzionava l’impianto biotecnologico della piramide di Cheope. L’elettrolisi è un processo che trasforma energia elettrica in energia chimica, inverso a quello della pila. Con la pila infatti si sfrutta una reazione chimica per produrre energia elettrica, con l’elettrolisi invece si usa l’energia elettrica per far decorrere una reazione chimica che non avverrebbe spontaneamente. Il suo nome deriva dal greco e significa “rompere con l’elettricità”, dato che nella maggior parte dei casi sottoporre ad elettrolisi una sostanza significa scomporla nei suoi elementi costitutivi. Per applicazione di una corrente elettrica continua, subiscono elettrolisi tutte quelle sostanze che, in soluzione o fuse, si scompongono in ioni, ossia gli acidi, le basi ed i sali, nonché l’acqua stessa.
L’elettrolisi dell’acqua produce ossigeno e idrogeno gassosi che a loro volta possono essere utilizzati nella cella a combustibile per produrre energia elettrica. Una cella a combustibile (dal nome inglese fuel cell) è un dispositivo elettochimico che permette di ottenere elettricità direttamente da certe sostanze, tipicamente da idrogeno ed ossigeni, senza che avvenga alcun processo di combustione termica. Fu scoperta per caso nel 1839 da William Grove, un curioso avvocato del Galles con l’hobby della chimica. Durante un esperimento di elettrolisi, procedimento attraverso il quale si può separare idrogeno e ossigeno dall’acqua, si accorse che, nel momento in cui le batterie che alimentavano le celle elettrolitiche venivano escluse, il processo riprendeva al contrario; cioè l’idrogeno e l’ossigeno si riunivano generando elettricità. La comunità scientifica pur interessata inizialmente preferì optare per la dinamo, scoperta poco tempo dopo da Werner Siemens, come generatore di energia elettrica. Passarono 120 anni prima che la NASA adottasse le “fuell cells” per il progetto Apollo. A partire dagli anni ’60 le pile a combustibile sono state utilizzate per tutte le missioni spaziali sia Apollo, sia Shuttle.
L’interesse per un possibile sviluppo di un’economia a idrogeno ha accelerato lo sviluppo di metodi meno costosi per la sua produzione su vasta scala. Oltre l’elettrolisi, l’idrogeno può essere estratto dall’acqua per termolisi utilizzando calore che comunemente viene attuata dagli idrocarburi e dai combustibili fossili attraverso processi chimici. La produzione su vasta scala dell’idrogeno avviene solitamente mediante lo steam reforming del gas naturale (metano). Ad alte temperature (700–1100 °C), il vapore (H2O) reagisce con il metano (CH4) per produrre syngas (miscela di gas, essenzialmente monossido di carbonio CO e idrogeno H2 ) con un’efficienza approssimativa dell’80%. CH4 + H2O = CO + 3H2 – 191,7 kJ/mol Il calore richiesto per attivare la reazione è generalmente fornito bruciando parte del metano. Anche alcuni processi biochimici permettono la produzione di idrogeno attraverso l’azione enzimatica con notevole risparmio energetico, ma ancora in fase di sperimentazioni per aumentarne l’efficienza: WATER GAS SHIFT Alcuni batteri fotoeterotrofi, appartenenti alla famiglia delle rodospirillacee e in particolare il Rubrivivax gelatinosus , possono crescere al buio, usando CO come sola fonte di carbonio, per generare ATP, idrogeno e CO mediante una reazione di via “water gas shift”. BIOFOTOLISI DELL’ACQUA La generazione di idrogeno ad opera di batteri fermentativi era già nota a partire dal 1930, i primi studi scientifici per la sua produzione sono iniziati nel 1942 con l’impiego di microalghe e nel 1949 con batteri fotosintetici. Oggi sappiamo che alcune alghe e batteri, in particolare microalghe e cyanobatteri sono in grado di produrre idrogeno sotto specifiche condizioni. I pigmenti delle alghe assorbono l’energia solare e gli enzimi nella cellula agiscono da catalizzatori per scindere l’acqua nei suoi componenti di idrogeno e ossigeno. PHOTOFERMENTATION Alcuni batteri fotosintetici, i “purple-non sulfur” , (Rhodobacter spheroides) sono considerati produttori molto efficaci di idrogeno. L’apparato fotosintetico di questo tipo di batteri, in condizioni anaerobiche, è in grado di utilizzare acidi organici (lattico, butirrico) o alcoli come donatori di elettroni, per la produzione di H2. BATTERI NON FOTOTROPICI La produzione di idrogeno con fermentazione al buio avviene mediante l’ausilio di batteri non fototropici, anaerobi o facoltativi capaci di trasformare i carboidrati e le proteine del substrato in gas di idrogeno: Enteroccoccus durans; Enterobacter cloacae vive nelle acque, suoli, piante, liquami, feci umane e animali. Enterobacter aerogenes vive nello stesso ambiente. Bacillus licheniformis Clostridium butyricum vive nei sedimenti marini, formaggi, rumine di vitelli, feci, veleno di serpenti. Clostridium tyrobutyricum vive nel suolo, formaggio, feci bovine e umane. Clostridium pasteurianum Lactobacillus casei vive nel latte, formaggio, letame, foraggio in silos, intestino umano. Se è vera la massima “la verità sta sempre nel mezzo”, la combinazione tra i principi dell’elettrolisi e l’azione enzimatica dei microrganismi ha prodotto la geniale cella a combustibile microbica (MFC) di un gruppo di ricercatori della Penn State guidata dal dottor Bruce Logan.
L’amido della biomassa viene trasformato, attraverso una fermentazione anaerobica, in acido acetico, necessario al metabolismo dei batteri all’interno della cella. I batteri inseriti nella camera dell’ anodo, priva di ossigeno, utilizzano l’acido acetico come fonte energetica per il loro metabolismo catalizzando la sua ossidazione. CH3COOH + 2H2O ? 2CO2 + 8H+ + e- Aggiungendo una piccola quantità di tensione (0,25 V) a quella prodotta dai batteri e non usando l’ossigeno al catodo abbiamo una cella elettrolitica per produrre idrogeno. Ma tutto questo cosa c’entra con la piramide di cheope ? La parola stessa piramide deriva dal greco e la si può tradurre come fuoco (pyr) nel mezzo. cioè l’energia concentrata al centro rappresentato dalla cosiddetta camera sepolcrale del re (5,20 x 10,40 m, alta 5,85 m), in granito di Assuan con un sarcofago vuoto e privo di coperchio. Il soffitto della stanza è formato da nove blocchi di granito dal peso di circa 400 t ed è protetto da un dispositivo costituito di cinque compartimenti disposti uno sopra l’altro (camere di scarico) e separati ognuno da blocchi piatti di granito, l’ultimo dei quali coperto da blocchi di calcare disposti “a contrasto” allo scopo di ripartire le forze di pressione della massa. L’aerazione della camera è assicurata da due prese d’aria, i condotti nord e sud.
Questo schema rappresenta molto semplicemente la cella elettrolitica microbiologica del faraone Cheope. Il funzionamento è uguale alla cella elettrolitica microbiologica della Penn State con la differenza del metano al posto dell’acido acetico e l’impiego di archeobatteri per la produzione di enzimi. La formula della reazione catalizzata dagli enzimi microbiologici è la seguente: CH4 + 2H20 ? CO2 + 8H+ + 8e- Il metano viene ossidato utilizzando l’ossigeno contenuto nell’acqua, gli elettrodi, anodo e catodo allontanano i metaboliti: la CO2 esce nel condotto dell’anodo dove migrano gli elettroni e l’ H2 passa attraverso il catodo, condotto nord. La differenza di potenziale tra i due elettrodi viene garantita sfruttando la polarità terrestre (orientamento dei condotti nord-sud) e dalla cuspide piramidale monolitica d’oro (pyramidion ) che collega l’anodo al catodo. Sappiamo che l’ossidazione del metano sviluppa energia sotto forma di calore che aumenta la temperatura dell’acqua compromettendo la sopravvivenza degli archeobatteri, ma la struttura (zed) formata da lastre di granito e camere d’aria sopra la camera del re permetteva il raffreddamento della soluzione con la dispersione del calore nella massa della piramide.
I sacerdoti egizi annualmente celebravano la cerimonia all’interno della piramide e il sarcofago della camera del re veniva riempito con le palline di sterco e interrate con il limo del Nilo. La camera del re veniva completamente allagata di acqua e iniettata di biogas prodotto dalla fermentazione anaerobica delle canne palustri del Nilo. Lo scarabeo sacro veniva adorato con il nome di Khepri che permetteva la fuoriuscita di Ra (Dio Sole) dalla Duat (oltretomba) rinnovando la rinascita di Nut (dea del cielo).
La figura distesa indossa un vestito con motivi che rappresentano il pennacchio della canna del Nilo, utilizzata per produrre la biomassa necessaria alla produzione di biogas. La figura centrale, con il cerchio solare sulla testa, poggia su una vasca affiancata dallo zed, le braccia aperte simulano i condotti di aerazione della piramide e penetrano due ankh (simbolo di energia), le mani ne sorreggono altri due orientati verso i poli. Il tutto racchiuso all’interno di una figura femminile molto leggera e ricoperta di stelle, rappresentazione dell’idrogeno prodotto dal processo. Le due imbarcazioni laterali indicano il percorso seguito dal fiume al mare aperto che per il Nilo corrisponde al Sud e Nord. Ritornando al quotidiano, quale utilità possiamo ottenere coniugando le conoscenze odierne con l’esperienza del passato? Ecco uno schema semplificato della tecnologia che potrà rivoluzionare il nostro approvvigionamento energetico e di conseguenza il modo di vivere e lavorare.
Si tratta di una cella a combustione e elettrolitica microbiologica. In poche parole il suo funzionamento può avvenire secondo lo schema A come cella a combustione per produrre elettricità, oppure schema B come cella elettrolitica per la produzione di idrogeno. La signora Maria, installato l’impianto nella sua abitazione, potrà produrre energia elettrica per le sue esigenze domestiche e immettere in rete quella prodotta in eccesso nelle ore di minor consumo, semplicemente utilizzando la sua fornitura di gas metano e aggiungendo all’impianto il prodotto a base di enzimi prodotto dalla ditta “Pincoenzim”. Non solo potrà anche fare il pieno della sua utilitaria ad idrogeno agendo sull’apposita manopola che converte l’impianto a cella elettrolitica utilizzando un po’ dell’energia della rete elettrica. La nostra signora Maria diventerà cliente e fornitore del gestore di energia elettrica che assicurerà il fabbisogno energetico alle attività produttive della zona. Per esempio il nostro amico benzinaio potrà farsi il carburante da solo con un semplice allaccio alla rete elettrica e alla condotta di metano. Ma tutto questo metano dove lo andiamo a prendere ? Semplice, dal nostro amico agricoltore che finalmente potrà reinserire nella rotazione colturale dei propri terreni, il prato poliennale. La biomassa non destinata a consumo alimentare verrà trasformata dal biodigestore in metano e prodotti fertilizzanti da distribuire sul terreno ripristinando la fertilità naturale del suolo. Ma non è finita qui, potrà anche accedere ai famosi “crediti di CO2” creandosi la propria tredicesima da spendere a Natale. Il prato polifita permetterà il recupero della sostanza organica persa negli ultimi 50 anni, stimata intorno al 1,5% in media che corrisponde a 280 quintali per ettaro. Questo enorme quantitativo di biomassa ha liberato nell’atmosfera 506.000 metri cubi di metano e 253.000 metri cubi di CO2 per ettaro. Allora i 7’980’000 ettari italiani di seminativi in 50 anni di moderna agricoltura hanno contribuito alla produzione di gas serra per 4’039’875’000’000 metri cubi di metano e 2’019’937’500’000 di CO2.
Dott. Aldo Adanti

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