Se dicessi che il nostro cervello è un meccanismo olografico che funziona all’interno di un intero universo olografico, uno potrebbe pensare almeno tre cose:
1) che sto raccontando la trama di un film, sicuramente quella di ‘Matrix’, o quella de ‘Il Tredicesimo Piano’;
2) che, condizionato da questi film, in un delirio fuffaro mi sono convinto di questa condizione;
3) che, in un caso più benevolo, questa un’affermazione del genere comporta una serie di domande esistenziali non indifferenti.
A trarre questa sconcertante conclusione è stato, in realtà, il dottor. Karl Pribram, un medico neurochirurgo austriaco, professore di psichiatria e psicologia in varie università americane, tra cui la Stanford University e la Georgetown University.
La ricerca parte da una domanda fondamentale che Pribram si è fatto sin dall’inizio della sua carriera: come e dove i ricordi vengono immagazzinati nel cervello? Ci sono particolari aree dedicate nel nostro organo cerebrale?
Durante le sue ricerche, mentre cercava di capire quale fossero le aree del cervello adibite alla memorizzazione, Pribram si rese conto che il cervello umano funziona in maniera olografica. Che significa questo?
I suoi studi rivelarono che i ricordi non vengono conservati in una determinata parte del cervello, come i files in un hard disk, ma erano piuttosto distribuiti in tutto il cervello nel suo insieme.
Infatti, alcune persone che hanno subito l’asportazione chirurgica di una parte del cervello, non hanno mostrato la perdita di ricordi specifici.
Ma, essendo un medico e non un matematico, Pribram non era in grado di comprendere il funzionamento di questo sistema, fino a quando non si imbattè nel concetto di olografia per la prima volta.
E’ proprio così che funziona un ologramma: ogni sua parte contiene l’intera informazione. In pratica, succede che se taglio l’ologramma in due parti, una volta illuminate dal laser, entrambe mostreranno sempre l’oggetto olografico per intero. Semplicemente, in ogni sua parte è immagazzina la versione completa di tutta l’informazione.
Nasce così una fruttuosa collaborazione con David Böhm, fisico e filosofo statunitense, che portò nel 1987 all’elaborazione della Teoria del Cervello Olonomico, la quale consiste in una descrizione in termini matematici dei processi neuronali che rendono il nostro cervello capace di comprendere le informazioni che si presenterebbero sotto forma di onde, per poi trasformarle in immagini tridimensionali.
Sostanzialmente, noi non vedremmo gli oggetti ‘per come sono’ (in accordo con quanto dice la teoria della relatività generale), ma solamente la loro informazione quantistica.
Gli scienziati del 20° secolo, grazie ad alcuni esperimenti con gli elettroni, hanno scoperto la doppia natura di queste particelle fondamentali della materia, vale a dire, che gli elettroni, come altre particelle quantistiche, vengono da noi percepiti come singole unità, mentre in realtà sono forme d’onda presenti in più punti simultaneamente.
Secondo quanto scritto nel suo libro ‘Universo, mente e materia’, pubblicato nel 1996, Böhm suggerisce che nell’universo esisterebbero un ordine ‘implicito’, che non vediamo e che egli paragona ad un ologramma nel quale la sua struttura complessiva è identificabile in ogni sua singola parte, e uno ‘esplicito’ che è ciò che realmente vediamo. Quest’ultimo sarebbe il risultato dell’interpretazione che il nostro cervello ci offre delle onde (o pattern) di interferenza che compongono l’universo.
La collaborazione tra i due ricercatori rivelò che anche il cervello e la memoria funzionano in una maniera molto simile. I ricordi, invece di essere immagazzinati nei neuroni, vengono codificati in impulsi che attraversano l’intero cervello, nello stesso modo in cui fa un laser quando colpisce una pellicola con un ologramma, generando l’immagine tridimensionale.
Ogni minima porzione del cervello sembra contenere l’intera memoria del cervello, il che significa che il cervello è in sè stesso un ologramma! Come è possibile per ogni porzione di una pellicola contenere tutte le informazioni per completare l’immagine, allo stesso modo ogni parte del cervello contiene le informazioni indispensabili per richiamare un’intera memoria.
John Von Neumann, uno dei più grandi geni del 20° secolo, calcolò che il cervello umano, nel corso di una vita media, è in grado di memorizzare 280 trilioni (280 seguito da 18 zeri) di bit d’informazione.
Se il cervello è un ologramma, significa che ogni parte del cervello è in grado di contenere una quantità di dati mostruosa. Forse, è proprio questa struttura a garantire la nostra capacità quasi soprannaturale di recuperare rapidamente qualsiasi informazione immagazzinata nella nostra memoria.
Pribram e Bohm hanno convenuto che il cervello è una sorta di “super-ologramma”, dove sono contenute le informazioni sul passato, del presente e del futuro, molto simile a un compact disc che contiene ancora le informazioni e che può essere letto, o decodificato, da un raggio laser.
Con questo modello, Pribram ha quindi teorizzato che le informazioni e i ricordi immagazzinati nel nostro cervello, non vengano “registrati” nei neuroni, ma siano il risultato di figure (o pattern) d’onda interferenti, spiegando in tal modo la capacità del cervello di immagazzinare un’enorme quantità di informazioni in uno spazio relativamente piccolo.
Conseguenze esistenziali
Ad ascoltare queste teorie si può davvero rimanere scioccati, soprattutto ora che abbiamo intrapreso la rivoluzione digitale.
Quando pensiamo che la nostra realtà, il nostro cervello e noi stessi, potrebbero essere degli ologrammi, subito associamo la parola all’informatica, cominciando a chiederci se non viviamo in una enorme simulazione computerizzata, o che siamo i personaggi di un videogame o che, addirittura, siamo schiavi di una progenie maligna che ha creato una prigione per le nostre menti.
A questo punto, ognuno sarebbe legittimato a credere che la sua vita non abbia alcun valore, che è tutto falso e che viviamo all’interno di una illusione. Attenzione però: ‘olografico’ non significa ‘virtuale’, nemmeno ‘illusorio’.
La domanda da porsi è: sapere che il nostro universo e noi stessi funzioniamo come ologrammi, azzera il senso della domanda esistenziale? A mio avviso, no. Credo che la domanda sul senso della propria esistenza attenda la risposta ad un ‘perchè’, non ad un ‘come’.
Sapere che il nostro universo (e noi stessi) siamo un aggregato di microparticelle indivisibili tenute insieme da qualcosa, o che la natura del nostro universo è di tipo olografico, cambia la risposta a ‘perchè esistiamo’?
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